E’ un cammino in mezzo alle risaie quello di oggi, procediamo su strade che costeggiano canali, il paesaggio è piatto e i grandi appezzamenti di terreno vengono lavorati da trattori palestrati che rivoltano zolle fangose, nell’aria aleggia un profumo di mota; l’ambiente concilia la riflessione, mi isolo dagli altri, mi concentro e lascio emergere dal pozzo della mia memoria un ricordo d’infanzia: io e mia sorella tingiamo con le chine colorate chicchi di riso che con pazienza poi, una volta asciutti, incolliamo su un foglio a formare un mosaico; quanti chicchi di riso! Tanti.
In uno spettacolo allestito da una compagnia torinese, una versione asciutta e algida di “Se questo è un uomo”, quando entri in sala ti viene affidato un chicco di riso e ti viene raccomandato di averne cura; la scena è un tavolo operatorio in acciaio su cui incessantemente cade il riso, fino a formare un cumulo alto un metro, composto da sei milioni e mezzo di chicchi; solo alla fine dello spettacolo comprendi che il chicco di riso che ti è stato affidato è una briciola di memoria, un brandello di umanità spezzata; ho visto persone imbarazzate cercare quel chicco di riso nelle tasche, sotto le poltrone del teatro, dentro borse fagogitatrici di universi femminili; quanti chicchi di riso! Troppi.
Continuiamo il nostro cammino, ci imbattiamo in una grande casa colonica di proprietà dell’ospedale maggiore di Vercelli: aleggia nell’aria un senso di abbandono, edifici vuoti, degradati dall’incuria degli anni; costeggiamo il perimetro di questo piccolo paese fantasma accerchiato dalle risaie, c’è un silenzio irreale; cerco di immaginare la vita che conteneva durante l’epopea delle mondine, c’è persino un fabbricato destinato ad Asilo Nido, con i vetri rotti e un tendina scolorita e strappata che lascia intuire una fantasia di forme geometriche, immagino bambini vocianti, che gridano, che ridono, che piangono, bambini che adesso sono cresciuti, uomini e donne prossimi alla pensione, forse già nonni di bambini vocianti, che gridano, che ridono, che piangono, che a loro volta cresceranno e forse diventeranno nonni.
Il mio amico Lino mi ricorda che così non fu per i bambini nei campi dello sterminio e mi affida un nome per tutti: SARAH ROSEN, aveva 5 anni quando diventò cenere a Treblinka. Passò gli ultimi mesi della sua vita in un letto, nascosta nel buio di un sottoscala. Non poteva uscire, così suo padre le dipingeva alberi e fiori sulle pareti. Di lei non resta più nulla, se non una vecchia foto che racconta un sorriso di bimba e fiori e alberi dipinti su un muro.
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