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A piedi attraverso l’Italia, l’Austria, la Repubblica Ceca e la Polonia per parlare di memoria…

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RESISTENZA ovvero LUNEDI’ 21 MARZO

Da Mules al Brennero.

Oggi, primo giorno di primavera, percorriamo l’ultimo tratto di Italia; attraversiamo grandi prati che cominciano a rifiorire e tra qualche settimana saranno pascoli per le tante mucche che, linde e lustre come concorrenti di un concorso di bellezza, vediamo placide mangiare fieno nei recinti intorno alle case. Se non fosse per il forte vento che scende giù dal valico e disturba questa dimensione di idilliaca serenità, sembrerebbe di trovarci dentro una cartolina.

Dopo tanti giorni in cui siamo stati accompagnati da nuovi e vecchi amici, questa mattina siamo soli a compiere il tratto alpino più alto di tutto il cammino ed è un bel mettere alla prova la nostra resistenza.

Resistenza, per le persone della mia generazione, che non hanno vissuto la guerra direttamente ma hanno imparata a conoscerla, fin da bambini attraverso i racconti dei propri genitori, dei nonni, degli adulti che allora c’erano, è una parola che immediatamente ti riconduce alla guerra partigiana. Se poi queste persone, come me, provengono da Cuneo, città di Duccio Galimberti, di Dante Livio Bianco, di Nuto Revelli, e sono nate e cresciute in un ambiente antifascista, la parola Resistenza suscita un moto di orgoglio quasi campanilistico che ammanta la lotta al nazifascismo di un alone epico ed eroico, proprio dei miti della terra natale.

21 marzoDunque il primo ed immediato significato della parola resistenza, per me, cuneese cinquantenne di oggi, risulta essere “l’atto di resistere”, nel senso di opporre resistenza anche violenta ad un nemico che attenta i diritti fondamentali ed inalienabili dell’Uomo. Ora questo viaggio sta facendo emergere in modo tangibile anche un altro significato di questa parola, che ha a che fare con la nostra capacità di sopportare lo sforzo, la fatica, il disagio, la sofferenza sia fisica che emozionale: resistenza nel senso di rimanere nonostante tutto, di restare in piedi, di non abbandonarsi allo sconforto, di andare avanti, di non rinunciare a vivere o almeno a sopravvivere.

Penso a tutto ciò mentre abbiamo superato Vipiteno e stiamo salendo verso il passo, camminando sulla statale; incontriamo dopo qualche chilometro il bivio per la pista ciclabile e ci inerpichiamo su una strada che ci porta rapidamente in quota. Scopriamo dopo quasi un’ora di camminare sul vecchio tracciato della ferrovia: ci emoziona pensare che su questo estremo lembo di territorio italiano stiamo posando i nostri piedi affaticati esattamente dove nel febbraio del ’44 passò il convoglio numero otto verso Auschwitz. Ci sentiamo tutti immediatamente più vicini ai cuneesi deportati: i nostri pensieri vanno a loro, proviamo ad immaginarceli rinchiusi nei carri bestiame, a quali saranno stati i loro sentimenti e quali le loro sensazioni; raggiungiamo una stazione fantasma, ciò che resta dell’ultima stazione ferroviaria prima del Brennero. Ci chiediamo se da quel treno qualcuno riuscì a vederla e se da quella stazione qualcuno li vide passare.

Non riesco più ad uscire dal corto circuito dei miei pensieri: il convoglio otto con il suo carico di umanità sofferente e il significato della parola resistenza. Quante di quelle persone destinate all’inutile sacrificio tentarono di resistere, quante invece fin dall’inizio si rassegnarono ad un destino inspiegabile ed inconcepibile? Vedo il convoglio fermo in questa stazioncina di montagna, sento le voci sussurrate, i respiri trattenuti, percepisco gli sguardi muti nel buio dei vagoni che chiedono perché; vedo il semaforo da rosso diventare verde, sento la locomotiva dare pressione mentre si trascina dietro il suo carico sofferente, vedo scomparire il convoglio inghiottito dalla galleria.

Penso a Beniamina Levi, casalinga di Mondovì, nata il 20 febbraio 1919, che viaggiò rinchiusa in uno di quei vagoni: lei sperimenterà sulla sua pelle il significato della parola resistenza fino alla fine, morirà, ironia della sorte, il 27 gennaio 1945, poco dopo la liberazione del campo.

Riprendiamo a camminare, superiamo una galleria, ormai mancano pochissimi chilometri, oltre una curva c’è un casello semi diroccato: ci sono una quantità di oggetti alla rinfusa, animali da cortile che scorrazzano liberi, un uomo seduto su una panca ci guarda passare rispondendo con un cenno al nostro saluto: scopriremo a sera che è un eremita che da anni vive lì in solitudine. Sorrido pensando che anche lui, con questo suo anacronistico modo di spendere la vita, mette alla prova tutti i giorni la parola resistenza.

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